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La doppia lingua

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La doppia lingua non è un organo da bestiario

serve ogni giorno al tipico critico letterario:

se non hai due lingue, dai forti talenti ondulatori,

non avrai opportunità, non appena cambi il direttore editoriale Mondadori,

di leccar sederi, recuperando il tempo dell’esilio causa òstrakon di cera (c’era?),

e, colla doppia lingua, di risparmiare i soldi dell’inserzione sul Corriere della Sera.

 

La doppia lingua è un organo di utilità marginale

all’aumentare del consumo di un sedere, la serietà non sale,

dispensatrice di «giudizi critici» oggettivi, a naso,

ricorda il caso di un artista che, da amico, era sovrano del Parnaso,

dopo un litigio si è trasformato in animale.

 

Questa è la bellezza immune del mestiere del critico letterario,

aver la doppia lingua rende, su ogni cosa, dissacrante e turiferario.

Intellettuale controcorrente, svelto a dedicar salmoni al massimo offerente,

immune da ogni critica, non immune dall’essere immuno-deficiente

a furia di scambiar siringhe di formalina contro ogni reazione irriverente,

consolida la doppia lingua, incassando un tot. d’assegni di reputazione al mese

nella speranza di riuscire, dopo anni di italiano anonimato, a diventar svedese.  

 

Perché la doppia lingua, a forza di mulinare, t’abbia finalmente annichilito il frigno,

abbia neutralizzato il mantra «nessuno mi commenta», «nessuno mi rammenta»,

t’abbia dato, quasi ottuagenario, i tuoi quindici minuti di celebrità col ballo della lontra, 

è dovuto intervenire addirittura il Chelsea di Mourinho.

 

                    [Cherchez la troika, 2016]

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